giovedì 17 marzo 2011

Perché non serve clericalizzare i laici

In un articolo, nell'inserto Agorà di Avvenire del 12 aprile 2010, Giorgio Campanini parla delle intuizioni (inascoltate) di Don Mazzolari sul ruolo dei laici nella Chiesa.

In una lettera del 1933 all'allora presidente della Gioventù femminile di Azione cattolica della diocesi di Cremona, così Mazzolari si esprimeva: «Il far posto ai laici nella Chiesa è sempre stata una mia missione, non una convinzione soltanto. Non simpatizzo con la maniera oggi in uso in Italia... Le esperienze e gli avvenimenti cambieranno tante cose. Quando? Non lo so perché non sono profeta: so però che dovrà essere, poiché un'Azione Cattolica che clericalizza (la parola è brutta ma il significato che le do in questo momento è inoffensivo) i laici... li sposta dalla loro qualità specifica... per loro imprestare, estraniandoli quasi del tutto dal mondo in cui vivono, una nostra mentalità. Non è un gran guadagno». Questo problema - il rischio, cioè, della «clericalizzazione» del laicato cattolico - rappresenta il filo conduttore della prolungata riflessione di Mazzolari sul rapporto gerarchia-clero-fedeli, dagli scritti degli anni '30 agli ultimi editoriali di Adesso.

Emblematico un suo importante scritto del 1937, e cioè la Lettera sulla parrocchia.
[...] Al centro della riflessione mazzolariana sta la ferma convinzione che, in una stagione caratterizzata dalla fine del regime di cristianità, la missione della Chiesa non possa pienamente espletarsi confidando esclusivamente nel trinomio gerarchia-clero-religiosi, ma si imponga «la partecipazione dei laici alla vita attiva dell'apostolato». Questa attiva presenza laicale nella missione evangelizzatrice della Chiesa è possibile, a giudizio di Mazzolari, a due fondamentali condizioni: in primo luogo la fuoriuscita dai ristretti recinti della vita parrocchiale e l'atteggiamento, da parte del laicato cattolico, di un atteggiamento di lucida e responsabile autonomia. Proprio aprendosi al mondo il laicato cattolico, abbandonando il sicuro rifugio della comunità cristiana, dovrebbe essere in grado di «fare il raccordo tra la parrocchia, che è lo spirito, e le attività della vita moderna»; né costituirebbe un dramma il fatto che questa «fuoriuscita» possa inizialmente provocare qualche tensione («Non importa se, uscendo» il laico «ha sbatacchiato l'uscio»). In secondo luogo l'abbandono, da parte della Chiesa, della pretesa di «controllare direttamente opere e istituzioni che sono di diritto nelle mani della comunità civile», garantendo così ai laici un adeguato spazio di libertà: «I figliuoli, divenuti maggiorenni - avverte -possono pretendere a una certa autonomia ed è dovere della religione d'educarveli invece di contrariarne l'aspirazione o impedirne o ritardarne la preparazione». Perché l'uno e l'altro obiettivo - il superamento della separatezza fra Chiesa e mondo e la promozione di un laicato responsabile - possano essere raggiunti occorre aprire porte e finestre della comunità cristiana: «Non si chiuda né si spranghi il mondo della parrocchia. Le grandi correnti del vivere moderno vi transitino, non dico senza controlli, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati... L'Azione cattolica ha il compito preciso d'introdurre le voci del tempo nella compagine eterna della Chiesa» e di «gettare il ponte sul mondo, ponendo fine a quell'isolamento che toglie alla Chiesa di agire sugli uomini del nostro tempo».

Proprio in vista di questa apertura al mondo, a giudizio di Mazzolari occorre «salvare la parrocchia» (ma qui, come in altri passi dello scritto, è facile intravedere dietro di essa tutta la Chiesa) «dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti». In sintesi, è necessario andare al di là del ristretto numero dei praticanti abituali, formare cristiani aperti al mondo, evitare la «clericalizzazione del laicato», dare fiducia ai fedeli e nello stesso tempo diffidare di coloro che, «docili e maneggevoli», secondo la caustica denunzia mazzolariana, «dicono sempre di sì» e spesso sono apprezzati e valorizzati assai più di coloro che, dotati di maggiore spirito critico, mettono in discussione la prassi corrente, e dunque «creano problemi».

martedì 1 marzo 2011

La fecondità dell'ospitalità

Da una lectio di mons. Dionigi Tettamanzi, riprendo le conclusioni che spiegano non solo l'esigenza per il cristiano di essere ospitale, ma l'indispensabilità di un'ospitalità che è "necessaria" alla vita.

È davvero strano che il nostro tempo tecnologico, tempo di viaggi interplanetari e di possibilità di comunicazione in un certo senso infinita, segni il primato delle spese legate all'immigrazione per una realtà inventata ancor prima della scrittura: il muro. Sì, il muro! Il muro, che nell'antichità era costruito per difesa, oggi è costruito per circoscrivere e impedire l'accesso di coloro che abitano vicino. [...]È interessante che, mentre nel mondo di internet, nei social network non esistono barriere che impediscono l'incontro e la relazione virtuale tra persone di etnie e culture differenti, nel mondo reale si costruiscono dei muri per impedire ai vicini di incontrarsi. Se con un clic un giovane italiano può stringere amicizia su Facebook con un coetaneo africano, dall'altra parte si impedisce a chi vuole guadagnarsi onestamente da vivere di potersi applicare al lavoro che sta oltre il confine, in quei Paesi dove a tante occupazioni quasi nessuno vuole applicarsi. Il vallo di Adriano e la Grande Muraglia cinese avevano il compito di difendere l'Impero Romano e il Celeste Impero da invasioni militari. Molti muri che sono stati costruiti di recente proteggono invece dalle povertà altrui: cercano di trasformare in fortezze quelle che sono state chiamate le «frontiere più disuguali del mondo». Se per un breve periodo sembrano riuscire a tener lontano qualche immigrante illegale, col tempo irrigidiscono proprio quella disuguaglianza economica che è causa dell'immigrazione e presto porteranno la sproporzione al collasso. I muri creano separazioni non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Non solo nella geografia, ma anche nella storia. Ma soprattutto il muro non solo «chiude fuori» il forestiero e il meno fortunato, il muro «chiude dentro» il privilegiato e lo condanna all'asfissia. Proprio come l'avaro, che muore d'inedia per non consumare a vantaggio di tutti e anche a vantaggio proprio quei beni che possiede. Quanto è vero ciò che diceva Hans Magnus Enzensberger: «Quanto più un Paese costruisce barriere per "difendere i propri valori", tanto meno valori avrà da difendere».