mercoledì 6 gennaio 2016

Un vescovo scopertosi profeta

Pochi giorni dopo il martirio di Romero, Jon Sobrino, teologo e amico dell'arcivescovo, scrisse: "Anche se pare strano dire questo, Romero era un uomo che credeva in Dio. La fede in Dio ha assunto nella sua vita delle conseguenze terribili. Lui ha dovuto liberarsi dalle immagini di Dio legate al potere e allo status quo. Per Romero, credere in Dio ha significato assumere radicalmente nella sua vita la causa di Dio".

Per questo, dopo la nomina ad arcivescovo di San Salvador, matura uno stile di pastore che molti non avevano previsto. Sarà lui stesso a dire, all'università di Lovanio in Belgio:
"Non vedo possibilità alcuna di rimanere neutrale. O serviamo la vita, o siamo complici della morte di molti esseri umani. Qui si rivela la nostra fede: o crediamo nel Dio della vita, o utilizziamo il nome di Dio, servendo i responsabili della morte dei poveri".

Per aver scelto di testimoniare il Dio della Vita, il 24 marzo 1980, monsignor Oscar Romero fu ucciso.

martedì 10 aprile 2012

I veri sepolcri sono i cuori induriti

Perché dovremmo far festa per Pasqua? Se lo chiede don Giuseppe Dossetti jr su Europa del 7 aprile 2012. La risposta è un elogio della debolezza o meglio della necessità della compassione.
"È la compassione di Maria Maddalena l’inizio dell’incontro degli uomini con il Risorto; senza quell’andare mattutino alla tomba, apparentemente senza ragione, gli apostoli sarebbero ritornati alle loro reti, Pilato avrebbe vinto e i sacerdoti sarebbero rimasti i custodi dell’ordine e della pubblica moralità; peggio per i poveri e per quanti si erano illusi che un mondo diverso fosse possibile.
Dunque, se non abbiamo compassione per la sofferenza dell’uomo, non possiamo incontrare il Risorto. Il pericolo odierno è proprio questo: ci stiamo abituando alla sofferenza dell’uomo, non c’interessa, i luoghi del dolore non ci attraggono, meglio le spiagge assolate o i locali rumorosi. È inevitabile, allora, che la Pasqua non ci dica nulla.
I veri sepolcri sono i cuori induriti, le pietre sono le etichette che applichiamo ad altri uomini per tenerli fuori dalla nostra vita. Che senso può avere la Pasqua per chi non si commuove davanti al barcone che affonda nel mare di Sicilia, per chi guarda con curiosità o disprezzo le prostitute che si offrono sulle strade, senza voler sapere quanta crudeltà e umiliazione stanno dietro a quel miserabile spettacolo? Io apprezzo coloro che vanno a trovare i malati, o gli anziani che vivono nelle case di riposo. La gioia non può avere come prezzo la cecità di fronte al dolore altrui: al contrario, è in questa amorosa e discreta sollecitudine, nelle “opere di misericordia”, che inizia l’esperienza della risurrezione."

martedì 22 novembre 2011

Cattolici nella società con lo stile di Vittorio Bachelet

Nel presentare su Europa l'ultimo saggio di Angelo Bertani su Vittorio Bachelet (Bachelet. Testimoniare da cristiani nella vita e nella politica) l'articolista si sofferma sulla lunga introduzione al volume dove l'autore scrive:

«Oggi i cattolici si chiedono come fare ad essere più presenti nella società. L’interrogativo è complesso e persino ambiguo, ma una risposta c’è: fare come Bachelet. Educare, aiutare a crescere tanti cittadini credenti, laici cristiani come Vittorio Bachelet. Non è facile, ma forse non ci proviamo neppure perché troppo alta e disinteressata appare la loro testimonianza, troppo pericolosa la loro libertà, poco redditizia la loro militanza». Nei [...] testi illuminanti del «messaggio educativo» di Bachelet (esemplare nella sua «antropologia della mitezza») c’è la chiave di lettura di qualcuno che «ci ha aiutato a uscire dal cristianesimo di cristianità: quello che si affidava al conformismo e all’intimidazione, all’abitudine, alle strutture, alle leggi. E a camminare verso un cristianesimo della coscienza e dell’amore, di comunione e di carità, dell’evangelo e del Concilio».

mercoledì 9 novembre 2011

L'attualità di Gandhi in tempo di crisi

Elisabetta Ambrosi su "Europa" di oggi inizia chiedendosi se si può rispondere alle umiliazioni senza provare ira e rabbia? Si può reagire ai soprusi e alla violenza, evitando di usare a propria volta la ferocia? Quando, ad esempio, come è successo nel caso dei giovani “indignati”, si è costretti a pagare un conto che non si è contribuito a creare; o si assiste sempre di più a uno scollamento tra ciò che è legale e ciò che è legittimo, perché le stesse azioni dello stato appaiono vessatorie e inique. Ecco il bisogno di guardare a figure storiche che ci permettano di andare oltre una sdegnata impotenza, come Ghandhi, di cui traccia gli elementi essenziali della personalità usando le parole di Jacques Attali nel libro Gandhi. Il risveglio degli umiliati

La prima lezione di Gandhi è che non si può cambiare il mondo se non si cambia prima se stessi: «L’individualismo è alla radice di qualsiasi progresso ». Se chi si sente umiliato non opera una profonda metamorfosi di sé rischia di divenire, a sua volta, un carnefice.
Com’è noto, il leader indiano lavorò incessantemente sulla liberazione dai propri desideri e dalla propria aggressività, per arrivare a un autocontrollo estremo: fatto di un veganesimo radicale, di continenza sessuale, di completo silenzio un giorno a settimana, di un abbigliamento consistente solo in indumenti di cotone filati da se stesso.
Oltre allo stile di vita, al centro della vita quotidiana di Gandhi c’era l’obbligo «della verità di parola, di pensiero e di azione». Mentre «fede», «tolleranza», «morale», «rinuncia », «amore», «disciplina», «istruzione», «giustizia», «servizio » erano le parole del suo universo etico e politico.
La seconda, grande, lezione gandhiana – insieme all’invito alla trasformazione di sé come preludio per cambiare il mondo – è quella della messa in pratica della non violenza.
Lungi dall’essere una forma di passività, la non violenza, che consiste sia nella benevolenza verso ogni forma di vita che nell’accoglienza del dolore, è espressione di «un’immensa forza spirituale». È un insegnamento che andrebbe impartito ai bambini, ai quali va ricordato che non solo è possibile, ma soprattutto molto più «facile vincere l’odio con l’amore, la menzogna con la verità, la violenza con l’accettazione della sofferenza».
La non violenza, proprio perché nulla ha a che fare con l’immobilismo, passa attraverso la battaglia politica e azioni radicalmente innovative per i tempi di Gandhi. Anzitutto, la disobbedienza civile di fronte alla violenza dello stato: qualcosa di più, nel caso di leader indiano, di una forma di boicotaggio o di sciopero. È il «satyagraha», letteralmente la “forza dell’essere”, l’energia trasformativa che deriva dal permanere nel bene. Senza aggredire, né regredire. La seconda pratica non violenta consiste nella mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso i media, soprattutto i giornali (Gandhi ne ha fondati e diretti vari nella sua vita).
La terza è il digiuno, visto «non come un ricatto ma come un modo per il più debole di avere moralmente la meglio sul più forte».
Queste pratiche servirono al leader indiano per lottare verso obiettivi concreti. Tra i tanti, abolire il sacrificio delle vedove e il divieto di risposarsi, abolire l’intoccabilità, sopprimere la dote per le spose e aumentare l’età legale del matrimonio. Oppure, in altre circostanze, ottenere un miglior tasso di cambio tra rupia e scellino, la riduzione della tassa fondiaria, delle spese militari, degli stipendi dei funzionari, l’abolizione della tassa sul sale, la liberazione dei detenuti politici.

venerdì 23 settembre 2011

Manager e monaco a confronto per una nuova etica aziendale

Leggo su Avvenire di oggi, in un articolo di Lorenzo Fazzini, la storia di due personaggi forse un po' atipici: un manager che si occupa di valori spirituali e un monaco interessato alle dinamiche aziendali.
Jochen Zeitz è stato un prodigio dell’economia europea: a 30 anni era il più giovane capo di un’azienda tedesca quotata in Borsa e per 18 anni (fino a marzo scorso) è stato amministratore delegato delle nota casa di abbigliamento sportivo Puma.
Anselm Grün invece è monaco benedettino e uno degli autori cristiani di lingua tedesca più letti al mondo.
Si conoscono e si confrontano. Un dialogo con molte affinità da cui è nato il libro Dio, i soldi e la coscienza.

Entrambi, il religioso e il 'colletto bianco', propugnano una forte preoccupazione per l’altro, per la società, per l’ambiente, angosciati da quella crisi economica che ha mandato in bancarotta Stati, banche e famiglie. «Un dato di fatto sta convincendo sempre più manager a riflettere sull’esigenza di cambiare rotta» annota Zeitz.
Grün ne è convinto: «Molte persone ai vertici d’impresa sentono che non si può andare avanti a lungo senza valori. Un ambiente in cui si calpesta la persona, e se stessi, scredita in fretta un’azienda: il capitale vacilla, le persone perdono qualsiasi senso di appartenenza. E l’impresa collassa». 


 «La sostenibilità esige un fondamento religioso – scrive il monaco –. Il ragionamento non offre motivi sufficienti per avviare un’economia sostenibile, come si è visto negli ultimi 30 anni. Ecco perché occorre una dimensione religiosa che mostri la natura come qualcosa che è sottratto al nostro dominio assoluto perché è stata creata da Dio». Gli fa eco Zeitz: «Vorrei poter approfondire la tematica con economisti e ecologisti. Si tratta del tentativo di includere, nella colonna dei costi, anche l’utilizzo e la trasformazione del 'capitale naturale' della Terra. I proventi dell’attività capitalistica vanno ai privati, i danni ecologici o sociali che essa provoca non vengono pagati dai responsabili o dalle aziende, ma dalla società. Noi uomini diamo per scontata l’esistenza del 'capitale naturale': aria, acqua, terra, minerali, elementi chimici, i cicli naturali». E di nuovo, con un esempio che calza a pennello in quest’epoca di crisi finanziaria: «Sono in gioco le leggi stesse della natura. Si può emettere più moneta per salvare una banca, ma non si può emettere più vita per salvare un pianeta» annota Zeitz, autore della rinascita della Puma, condotta anche secondo standard etici di cui il 'Puma Safe' (sigla per 'responsabilità sociale ed ecologica') è stato il nerbo. Insomma, ci vuole un sussulto da parte di umanisti ed economisti per ridare il giusto spazio nella prassi economica all’elemento religioso. Su questo Grün è tagliente: «Quando l’economia scarica sulle organizzazioni religiose la tutela dei disoccupati, compie un atto illegittimo. L’economia deve contenere al proprio interno gli stessi valori che diffonde la religione. Sarebbe troppo comodo se la missione delle religioni si riducesse a 'mettere i cerotti' sulle ferite provocate dall’economia». 

martedì 13 settembre 2011

L'intransigenza 'irragionevole' di Capitini

Aldo Capitini, inventore della marcia Perugia-Assisi e 'filosofo' della nonviolenza in Italia affermava:

«Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma.
Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, perché non posso approvare che la be­stia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasfor­mazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte. Questa è l’apertura reli­giosa fondamentale, e così alle persone, agli esseri che incon­tro, resto unito intimamente per sempre qualunque cosa loro ac­cada, in una compresenza inti­ma, di cui fanno parte anche i morti [...]»

giovedì 25 agosto 2011

Tre vie di pazienza di fronte al Dio silenzioso e nascosto

Su Avvenire di oggi Andrea Galli presenta il sacerdote ceco Tomáš Halík. In patria è forse l’intellettuale cattolico più noto, anche per i suoi libri di spiritualità indirizzati al grande pubblico. L’ultimo di questi, Pazienza con Dio, è una meditazione sul problema dell’ateismo, o meglio sul rapporto tra credenti e no che ruota attorno all’episodio dell’incontro fra Gesù e Zaccheo narrato nel Vangelo di Luca.

Perché lei insiste sulla “pazienza” come farmaco per il sedicente e diffuso ateismo?«In quello che scrivo cerco di condividere i frutti di un’esperienza lunga una vita nel dialogo con i non credenti. Credo che la fede possa vincere la miscredenza solo abbracciandola. Non dico a chi non crede “tu sbagli”, ma piuttosto “manchi di pazienza e la tua verità resta parziale”. L’ateismo convenzionale, così come l’entusiasmo religioso o il fondamentalismo, sono in fondo entrambi il frutto di una visione semplicistica di Dio e dell’esistenza. Misteri per addentrarsi nei quali è necessario avere pazienza. La fede, la speranza e la carità sono tre vie di pazienza di fronte al Dio silenzioso e nascosto». 

«Penso che l’architettura di piazza San Pietro ci insegni una cosa: che la Chiesa deve essere una Chiesa aperta. I cristiani devono chiamare “per nome” coloro che sono in ricerca – come Gesù ha fatto con Zaccheo – e dire loro: vorrei entrare nella tua casa, venirti vicino. Se la Chiesa si concentrasse solo sui suoi membri pienamente integrati diventerebbe lentamente una setta. Io cerco di comunicare con coloro che sono in ricerca e mostrare loro che la fede non è un’ideologia. La fede e il dubbio, ossia la ragione critica, sono come fratelli che devono correggersi a vicenda. La fede senza la ragione è pericolosa, può portare al fanatismo e alla violenza, mentre la “pura ragione” senza alimento etico e spirituale dalle profondità della fede conduce al cinismo»