Elisabetta Ambrosi su "Europa" di oggi inizia chiedendosi se si può rispondere alle umiliazioni senza provare ira e rabbia? Si può
reagire ai soprusi e alla violenza, evitando di usare a propria volta la
ferocia? Quando, ad esempio, come è successo nel caso dei giovani “indignati”, si è
costretti a pagare un conto che non si è contribuito a creare; o si
assiste sempre di più a uno scollamento tra ciò che è legale e ciò che è
legittimo, perché le stesse azioni dello stato appaiono vessatorie e
inique. Ecco il bisogno di guardare a figure storiche che ci permettano di andare oltre una sdegnata impotenza, come Ghandhi, di cui traccia gli elementi essenziali della personalità usando le parole di Jacques Attali nel libro Gandhi. Il risveglio degli umiliati
La prima lezione di Gandhi è che non si può cambiare il
mondo se non si cambia prima se stessi: «L’individualismo è alla radice
di qualsiasi progresso ». Se chi si sente umiliato non opera una
profonda metamorfosi di sé rischia di divenire, a sua volta, un
carnefice.
Com’è noto, il leader indiano lavorò incessantemente sulla
liberazione dai propri desideri e dalla propria aggressività, per
arrivare a un autocontrollo estremo: fatto di un veganesimo radicale, di
continenza sessuale, di completo silenzio un giorno a settimana, di un
abbigliamento consistente solo in indumenti di cotone filati da se
stesso.
Oltre allo stile di vita, al centro della vita quotidiana di
Gandhi c’era l’obbligo «della verità di parola, di pensiero e di
azione». Mentre «fede», «tolleranza», «morale», «rinuncia », «amore»,
«disciplina», «istruzione», «giustizia», «servizio » erano le parole del
suo universo etico e politico.
La seconda, grande, lezione gandhiana
– insieme all’invito alla trasformazione di sé come preludio per
cambiare il mondo – è quella della messa in pratica della non violenza.
Lungi
dall’essere una forma di passività, la non violenza, che consiste sia
nella benevolenza verso ogni forma di vita che nell’accoglienza del
dolore, è espressione di «un’immensa forza spirituale». È un
insegnamento che andrebbe impartito ai bambini, ai quali va ricordato
che non solo è possibile, ma soprattutto molto più «facile vincere
l’odio con l’amore, la menzogna con la verità, la violenza con
l’accettazione della sofferenza».
La non violenza, proprio perché
nulla ha a che fare con l’immobilismo, passa attraverso la battaglia
politica e azioni radicalmente innovative per i tempi di Gandhi.
Anzitutto, la disobbedienza civile di fronte alla violenza dello stato:
qualcosa di più, nel caso di leader indiano, di una forma di boicotaggio
o di sciopero. È il «satyagraha», letteralmente la “forza dell’essere”,
l’energia trasformativa che deriva dal permanere nel bene. Senza
aggredire, né regredire. La seconda pratica non violenta consiste nella
mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso i media, soprattutto i
giornali (Gandhi ne ha fondati e diretti vari nella sua vita).
La
terza è il digiuno, visto «non come un ricatto ma come un modo per il
più debole di avere moralmente la meglio sul più forte».
Queste
pratiche servirono al leader indiano per lottare verso obiettivi
concreti. Tra i tanti, abolire il sacrificio delle vedove e il divieto
di risposarsi, abolire l’intoccabilità, sopprimere la dote per le spose e
aumentare l’età legale del matrimonio. Oppure, in altre circostanze,
ottenere un miglior tasso di cambio tra rupia e scellino, la riduzione
della tassa fondiaria, delle spese militari, degli stipendi dei
funzionari, l’abolizione della tassa sul sale, la liberazione dei
detenuti politici.
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