mercoledì 9 novembre 2011

L'attualità di Gandhi in tempo di crisi

Elisabetta Ambrosi su "Europa" di oggi inizia chiedendosi se si può rispondere alle umiliazioni senza provare ira e rabbia? Si può reagire ai soprusi e alla violenza, evitando di usare a propria volta la ferocia? Quando, ad esempio, come è successo nel caso dei giovani “indignati”, si è costretti a pagare un conto che non si è contribuito a creare; o si assiste sempre di più a uno scollamento tra ciò che è legale e ciò che è legittimo, perché le stesse azioni dello stato appaiono vessatorie e inique. Ecco il bisogno di guardare a figure storiche che ci permettano di andare oltre una sdegnata impotenza, come Ghandhi, di cui traccia gli elementi essenziali della personalità usando le parole di Jacques Attali nel libro Gandhi. Il risveglio degli umiliati

La prima lezione di Gandhi è che non si può cambiare il mondo se non si cambia prima se stessi: «L’individualismo è alla radice di qualsiasi progresso ». Se chi si sente umiliato non opera una profonda metamorfosi di sé rischia di divenire, a sua volta, un carnefice.
Com’è noto, il leader indiano lavorò incessantemente sulla liberazione dai propri desideri e dalla propria aggressività, per arrivare a un autocontrollo estremo: fatto di un veganesimo radicale, di continenza sessuale, di completo silenzio un giorno a settimana, di un abbigliamento consistente solo in indumenti di cotone filati da se stesso.
Oltre allo stile di vita, al centro della vita quotidiana di Gandhi c’era l’obbligo «della verità di parola, di pensiero e di azione». Mentre «fede», «tolleranza», «morale», «rinuncia », «amore», «disciplina», «istruzione», «giustizia», «servizio » erano le parole del suo universo etico e politico.
La seconda, grande, lezione gandhiana – insieme all’invito alla trasformazione di sé come preludio per cambiare il mondo – è quella della messa in pratica della non violenza.
Lungi dall’essere una forma di passività, la non violenza, che consiste sia nella benevolenza verso ogni forma di vita che nell’accoglienza del dolore, è espressione di «un’immensa forza spirituale». È un insegnamento che andrebbe impartito ai bambini, ai quali va ricordato che non solo è possibile, ma soprattutto molto più «facile vincere l’odio con l’amore, la menzogna con la verità, la violenza con l’accettazione della sofferenza».
La non violenza, proprio perché nulla ha a che fare con l’immobilismo, passa attraverso la battaglia politica e azioni radicalmente innovative per i tempi di Gandhi. Anzitutto, la disobbedienza civile di fronte alla violenza dello stato: qualcosa di più, nel caso di leader indiano, di una forma di boicotaggio o di sciopero. È il «satyagraha», letteralmente la “forza dell’essere”, l’energia trasformativa che deriva dal permanere nel bene. Senza aggredire, né regredire. La seconda pratica non violenta consiste nella mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso i media, soprattutto i giornali (Gandhi ne ha fondati e diretti vari nella sua vita).
La terza è il digiuno, visto «non come un ricatto ma come un modo per il più debole di avere moralmente la meglio sul più forte».
Queste pratiche servirono al leader indiano per lottare verso obiettivi concreti. Tra i tanti, abolire il sacrificio delle vedove e il divieto di risposarsi, abolire l’intoccabilità, sopprimere la dote per le spose e aumentare l’età legale del matrimonio. Oppure, in altre circostanze, ottenere un miglior tasso di cambio tra rupia e scellino, la riduzione della tassa fondiaria, delle spese militari, degli stipendi dei funzionari, l’abolizione della tassa sul sale, la liberazione dei detenuti politici.

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