martedì 22 novembre 2011

Cattolici nella società con lo stile di Vittorio Bachelet

Nel presentare su Europa l'ultimo saggio di Angelo Bertani su Vittorio Bachelet (Bachelet. Testimoniare da cristiani nella vita e nella politica) l'articolista si sofferma sulla lunga introduzione al volume dove l'autore scrive:

«Oggi i cattolici si chiedono come fare ad essere più presenti nella società. L’interrogativo è complesso e persino ambiguo, ma una risposta c’è: fare come Bachelet. Educare, aiutare a crescere tanti cittadini credenti, laici cristiani come Vittorio Bachelet. Non è facile, ma forse non ci proviamo neppure perché troppo alta e disinteressata appare la loro testimonianza, troppo pericolosa la loro libertà, poco redditizia la loro militanza». Nei [...] testi illuminanti del «messaggio educativo» di Bachelet (esemplare nella sua «antropologia della mitezza») c’è la chiave di lettura di qualcuno che «ci ha aiutato a uscire dal cristianesimo di cristianità: quello che si affidava al conformismo e all’intimidazione, all’abitudine, alle strutture, alle leggi. E a camminare verso un cristianesimo della coscienza e dell’amore, di comunione e di carità, dell’evangelo e del Concilio».

mercoledì 9 novembre 2011

L'attualità di Gandhi in tempo di crisi

Elisabetta Ambrosi su "Europa" di oggi inizia chiedendosi se si può rispondere alle umiliazioni senza provare ira e rabbia? Si può reagire ai soprusi e alla violenza, evitando di usare a propria volta la ferocia? Quando, ad esempio, come è successo nel caso dei giovani “indignati”, si è costretti a pagare un conto che non si è contribuito a creare; o si assiste sempre di più a uno scollamento tra ciò che è legale e ciò che è legittimo, perché le stesse azioni dello stato appaiono vessatorie e inique. Ecco il bisogno di guardare a figure storiche che ci permettano di andare oltre una sdegnata impotenza, come Ghandhi, di cui traccia gli elementi essenziali della personalità usando le parole di Jacques Attali nel libro Gandhi. Il risveglio degli umiliati

La prima lezione di Gandhi è che non si può cambiare il mondo se non si cambia prima se stessi: «L’individualismo è alla radice di qualsiasi progresso ». Se chi si sente umiliato non opera una profonda metamorfosi di sé rischia di divenire, a sua volta, un carnefice.
Com’è noto, il leader indiano lavorò incessantemente sulla liberazione dai propri desideri e dalla propria aggressività, per arrivare a un autocontrollo estremo: fatto di un veganesimo radicale, di continenza sessuale, di completo silenzio un giorno a settimana, di un abbigliamento consistente solo in indumenti di cotone filati da se stesso.
Oltre allo stile di vita, al centro della vita quotidiana di Gandhi c’era l’obbligo «della verità di parola, di pensiero e di azione». Mentre «fede», «tolleranza», «morale», «rinuncia », «amore», «disciplina», «istruzione», «giustizia», «servizio » erano le parole del suo universo etico e politico.
La seconda, grande, lezione gandhiana – insieme all’invito alla trasformazione di sé come preludio per cambiare il mondo – è quella della messa in pratica della non violenza.
Lungi dall’essere una forma di passività, la non violenza, che consiste sia nella benevolenza verso ogni forma di vita che nell’accoglienza del dolore, è espressione di «un’immensa forza spirituale». È un insegnamento che andrebbe impartito ai bambini, ai quali va ricordato che non solo è possibile, ma soprattutto molto più «facile vincere l’odio con l’amore, la menzogna con la verità, la violenza con l’accettazione della sofferenza».
La non violenza, proprio perché nulla ha a che fare con l’immobilismo, passa attraverso la battaglia politica e azioni radicalmente innovative per i tempi di Gandhi. Anzitutto, la disobbedienza civile di fronte alla violenza dello stato: qualcosa di più, nel caso di leader indiano, di una forma di boicotaggio o di sciopero. È il «satyagraha», letteralmente la “forza dell’essere”, l’energia trasformativa che deriva dal permanere nel bene. Senza aggredire, né regredire. La seconda pratica non violenta consiste nella mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso i media, soprattutto i giornali (Gandhi ne ha fondati e diretti vari nella sua vita).
La terza è il digiuno, visto «non come un ricatto ma come un modo per il più debole di avere moralmente la meglio sul più forte».
Queste pratiche servirono al leader indiano per lottare verso obiettivi concreti. Tra i tanti, abolire il sacrificio delle vedove e il divieto di risposarsi, abolire l’intoccabilità, sopprimere la dote per le spose e aumentare l’età legale del matrimonio. Oppure, in altre circostanze, ottenere un miglior tasso di cambio tra rupia e scellino, la riduzione della tassa fondiaria, delle spese militari, degli stipendi dei funzionari, l’abolizione della tassa sul sale, la liberazione dei detenuti politici.

venerdì 23 settembre 2011

Manager e monaco a confronto per una nuova etica aziendale

Leggo su Avvenire di oggi, in un articolo di Lorenzo Fazzini, la storia di due personaggi forse un po' atipici: un manager che si occupa di valori spirituali e un monaco interessato alle dinamiche aziendali.
Jochen Zeitz è stato un prodigio dell’economia europea: a 30 anni era il più giovane capo di un’azienda tedesca quotata in Borsa e per 18 anni (fino a marzo scorso) è stato amministratore delegato delle nota casa di abbigliamento sportivo Puma.
Anselm Grün invece è monaco benedettino e uno degli autori cristiani di lingua tedesca più letti al mondo.
Si conoscono e si confrontano. Un dialogo con molte affinità da cui è nato il libro Dio, i soldi e la coscienza.

Entrambi, il religioso e il 'colletto bianco', propugnano una forte preoccupazione per l’altro, per la società, per l’ambiente, angosciati da quella crisi economica che ha mandato in bancarotta Stati, banche e famiglie. «Un dato di fatto sta convincendo sempre più manager a riflettere sull’esigenza di cambiare rotta» annota Zeitz.
Grün ne è convinto: «Molte persone ai vertici d’impresa sentono che non si può andare avanti a lungo senza valori. Un ambiente in cui si calpesta la persona, e se stessi, scredita in fretta un’azienda: il capitale vacilla, le persone perdono qualsiasi senso di appartenenza. E l’impresa collassa». 


 «La sostenibilità esige un fondamento religioso – scrive il monaco –. Il ragionamento non offre motivi sufficienti per avviare un’economia sostenibile, come si è visto negli ultimi 30 anni. Ecco perché occorre una dimensione religiosa che mostri la natura come qualcosa che è sottratto al nostro dominio assoluto perché è stata creata da Dio». Gli fa eco Zeitz: «Vorrei poter approfondire la tematica con economisti e ecologisti. Si tratta del tentativo di includere, nella colonna dei costi, anche l’utilizzo e la trasformazione del 'capitale naturale' della Terra. I proventi dell’attività capitalistica vanno ai privati, i danni ecologici o sociali che essa provoca non vengono pagati dai responsabili o dalle aziende, ma dalla società. Noi uomini diamo per scontata l’esistenza del 'capitale naturale': aria, acqua, terra, minerali, elementi chimici, i cicli naturali». E di nuovo, con un esempio che calza a pennello in quest’epoca di crisi finanziaria: «Sono in gioco le leggi stesse della natura. Si può emettere più moneta per salvare una banca, ma non si può emettere più vita per salvare un pianeta» annota Zeitz, autore della rinascita della Puma, condotta anche secondo standard etici di cui il 'Puma Safe' (sigla per 'responsabilità sociale ed ecologica') è stato il nerbo. Insomma, ci vuole un sussulto da parte di umanisti ed economisti per ridare il giusto spazio nella prassi economica all’elemento religioso. Su questo Grün è tagliente: «Quando l’economia scarica sulle organizzazioni religiose la tutela dei disoccupati, compie un atto illegittimo. L’economia deve contenere al proprio interno gli stessi valori che diffonde la religione. Sarebbe troppo comodo se la missione delle religioni si riducesse a 'mettere i cerotti' sulle ferite provocate dall’economia». 

martedì 13 settembre 2011

L'intransigenza 'irragionevole' di Capitini

Aldo Capitini, inventore della marcia Perugia-Assisi e 'filosofo' della nonviolenza in Italia affermava:

«Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma.
Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, perché non posso approvare che la be­stia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasfor­mazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte. Questa è l’apertura reli­giosa fondamentale, e così alle persone, agli esseri che incon­tro, resto unito intimamente per sempre qualunque cosa loro ac­cada, in una compresenza inti­ma, di cui fanno parte anche i morti [...]»

giovedì 25 agosto 2011

Tre vie di pazienza di fronte al Dio silenzioso e nascosto

Su Avvenire di oggi Andrea Galli presenta il sacerdote ceco Tomáš Halík. In patria è forse l’intellettuale cattolico più noto, anche per i suoi libri di spiritualità indirizzati al grande pubblico. L’ultimo di questi, Pazienza con Dio, è una meditazione sul problema dell’ateismo, o meglio sul rapporto tra credenti e no che ruota attorno all’episodio dell’incontro fra Gesù e Zaccheo narrato nel Vangelo di Luca.

Perché lei insiste sulla “pazienza” come farmaco per il sedicente e diffuso ateismo?«In quello che scrivo cerco di condividere i frutti di un’esperienza lunga una vita nel dialogo con i non credenti. Credo che la fede possa vincere la miscredenza solo abbracciandola. Non dico a chi non crede “tu sbagli”, ma piuttosto “manchi di pazienza e la tua verità resta parziale”. L’ateismo convenzionale, così come l’entusiasmo religioso o il fondamentalismo, sono in fondo entrambi il frutto di una visione semplicistica di Dio e dell’esistenza. Misteri per addentrarsi nei quali è necessario avere pazienza. La fede, la speranza e la carità sono tre vie di pazienza di fronte al Dio silenzioso e nascosto». 

«Penso che l’architettura di piazza San Pietro ci insegni una cosa: che la Chiesa deve essere una Chiesa aperta. I cristiani devono chiamare “per nome” coloro che sono in ricerca – come Gesù ha fatto con Zaccheo – e dire loro: vorrei entrare nella tua casa, venirti vicino. Se la Chiesa si concentrasse solo sui suoi membri pienamente integrati diventerebbe lentamente una setta. Io cerco di comunicare con coloro che sono in ricerca e mostrare loro che la fede non è un’ideologia. La fede e il dubbio, ossia la ragione critica, sono come fratelli che devono correggersi a vicenda. La fede senza la ragione è pericolosa, può portare al fanatismo e alla violenza, mentre la “pura ragione” senza alimento etico e spirituale dalle profondità della fede conduce al cinismo»

domenica 24 aprile 2011

Buona Pasqua!

Ho ricevuto, sotto forma di auguri pasquali, questa riflessione di Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose.

Questa veglia ha soprattutto uno scopo: farci comprendere la Pasqua, la resurrezione, e renderci partecipi di questo mistero, il mistero della vittoria di Dio sulla morte, del «Dio» che «è amore» (1Gv 4,8.16) sulla morte. Perché solo di questo noi terrestri abbiamo bisogno: di poter credere che l’amore che abbiamo vissuto, l’amore condiviso con quelli che abbiamo amato e che amiamo, l’amore di cui siamo stati capaci – combattendo il nostro egoismo, la nostra philautía (ovvero il costituirsi dell'uomo come soggetto e oggetto del proprio affetto ) , la nostra voglia di sopravvivere senza gli altri, magari contro gli altri, ma appunto di vivere sopra, di sopra-vivere –, ebbene questo amore sia un amore che rimane, che contiene qualcosa dell’eternità, un amore che ci possa permettere di dire nel presente e nel futuro: «Io amo, anche quando l’altro che io amo non è più».

giovedì 17 marzo 2011

Perché non serve clericalizzare i laici

In un articolo, nell'inserto Agorà di Avvenire del 12 aprile 2010, Giorgio Campanini parla delle intuizioni (inascoltate) di Don Mazzolari sul ruolo dei laici nella Chiesa.

In una lettera del 1933 all'allora presidente della Gioventù femminile di Azione cattolica della diocesi di Cremona, così Mazzolari si esprimeva: «Il far posto ai laici nella Chiesa è sempre stata una mia missione, non una convinzione soltanto. Non simpatizzo con la maniera oggi in uso in Italia... Le esperienze e gli avvenimenti cambieranno tante cose. Quando? Non lo so perché non sono profeta: so però che dovrà essere, poiché un'Azione Cattolica che clericalizza (la parola è brutta ma il significato che le do in questo momento è inoffensivo) i laici... li sposta dalla loro qualità specifica... per loro imprestare, estraniandoli quasi del tutto dal mondo in cui vivono, una nostra mentalità. Non è un gran guadagno». Questo problema - il rischio, cioè, della «clericalizzazione» del laicato cattolico - rappresenta il filo conduttore della prolungata riflessione di Mazzolari sul rapporto gerarchia-clero-fedeli, dagli scritti degli anni '30 agli ultimi editoriali di Adesso.

Emblematico un suo importante scritto del 1937, e cioè la Lettera sulla parrocchia.
[...] Al centro della riflessione mazzolariana sta la ferma convinzione che, in una stagione caratterizzata dalla fine del regime di cristianità, la missione della Chiesa non possa pienamente espletarsi confidando esclusivamente nel trinomio gerarchia-clero-religiosi, ma si imponga «la partecipazione dei laici alla vita attiva dell'apostolato». Questa attiva presenza laicale nella missione evangelizzatrice della Chiesa è possibile, a giudizio di Mazzolari, a due fondamentali condizioni: in primo luogo la fuoriuscita dai ristretti recinti della vita parrocchiale e l'atteggiamento, da parte del laicato cattolico, di un atteggiamento di lucida e responsabile autonomia. Proprio aprendosi al mondo il laicato cattolico, abbandonando il sicuro rifugio della comunità cristiana, dovrebbe essere in grado di «fare il raccordo tra la parrocchia, che è lo spirito, e le attività della vita moderna»; né costituirebbe un dramma il fatto che questa «fuoriuscita» possa inizialmente provocare qualche tensione («Non importa se, uscendo» il laico «ha sbatacchiato l'uscio»). In secondo luogo l'abbandono, da parte della Chiesa, della pretesa di «controllare direttamente opere e istituzioni che sono di diritto nelle mani della comunità civile», garantendo così ai laici un adeguato spazio di libertà: «I figliuoli, divenuti maggiorenni - avverte -possono pretendere a una certa autonomia ed è dovere della religione d'educarveli invece di contrariarne l'aspirazione o impedirne o ritardarne la preparazione». Perché l'uno e l'altro obiettivo - il superamento della separatezza fra Chiesa e mondo e la promozione di un laicato responsabile - possano essere raggiunti occorre aprire porte e finestre della comunità cristiana: «Non si chiuda né si spranghi il mondo della parrocchia. Le grandi correnti del vivere moderno vi transitino, non dico senza controlli, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati... L'Azione cattolica ha il compito preciso d'introdurre le voci del tempo nella compagine eterna della Chiesa» e di «gettare il ponte sul mondo, ponendo fine a quell'isolamento che toglie alla Chiesa di agire sugli uomini del nostro tempo».

Proprio in vista di questa apertura al mondo, a giudizio di Mazzolari occorre «salvare la parrocchia» (ma qui, come in altri passi dello scritto, è facile intravedere dietro di essa tutta la Chiesa) «dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti». In sintesi, è necessario andare al di là del ristretto numero dei praticanti abituali, formare cristiani aperti al mondo, evitare la «clericalizzazione del laicato», dare fiducia ai fedeli e nello stesso tempo diffidare di coloro che, «docili e maneggevoli», secondo la caustica denunzia mazzolariana, «dicono sempre di sì» e spesso sono apprezzati e valorizzati assai più di coloro che, dotati di maggiore spirito critico, mettono in discussione la prassi corrente, e dunque «creano problemi».

martedì 1 marzo 2011

La fecondità dell'ospitalità

Da una lectio di mons. Dionigi Tettamanzi, riprendo le conclusioni che spiegano non solo l'esigenza per il cristiano di essere ospitale, ma l'indispensabilità di un'ospitalità che è "necessaria" alla vita.

È davvero strano che il nostro tempo tecnologico, tempo di viaggi interplanetari e di possibilità di comunicazione in un certo senso infinita, segni il primato delle spese legate all'immigrazione per una realtà inventata ancor prima della scrittura: il muro. Sì, il muro! Il muro, che nell'antichità era costruito per difesa, oggi è costruito per circoscrivere e impedire l'accesso di coloro che abitano vicino. [...]È interessante che, mentre nel mondo di internet, nei social network non esistono barriere che impediscono l'incontro e la relazione virtuale tra persone di etnie e culture differenti, nel mondo reale si costruiscono dei muri per impedire ai vicini di incontrarsi. Se con un clic un giovane italiano può stringere amicizia su Facebook con un coetaneo africano, dall'altra parte si impedisce a chi vuole guadagnarsi onestamente da vivere di potersi applicare al lavoro che sta oltre il confine, in quei Paesi dove a tante occupazioni quasi nessuno vuole applicarsi. Il vallo di Adriano e la Grande Muraglia cinese avevano il compito di difendere l'Impero Romano e il Celeste Impero da invasioni militari. Molti muri che sono stati costruiti di recente proteggono invece dalle povertà altrui: cercano di trasformare in fortezze quelle che sono state chiamate le «frontiere più disuguali del mondo». Se per un breve periodo sembrano riuscire a tener lontano qualche immigrante illegale, col tempo irrigidiscono proprio quella disuguaglianza economica che è causa dell'immigrazione e presto porteranno la sproporzione al collasso. I muri creano separazioni non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Non solo nella geografia, ma anche nella storia. Ma soprattutto il muro non solo «chiude fuori» il forestiero e il meno fortunato, il muro «chiude dentro» il privilegiato e lo condanna all'asfissia. Proprio come l'avaro, che muore d'inedia per non consumare a vantaggio di tutti e anche a vantaggio proprio quei beni che possiede. Quanto è vero ciò che diceva Hans Magnus Enzensberger: «Quanto più un Paese costruisce barriere per "difendere i propri valori", tanto meno valori avrà da difendere».

domenica 16 gennaio 2011

La santità ospitale di Gesù

Riprendo, da un'intervista su Avvenire del 19 maggio 2010, le riflessioni del teologo francese Christoph Theobald su quello che lui definisce "il concetto di santità ospitale".

Se si analizza ciò che i testi ci raccontano a un primo livello, e penso ad esempio al Vangelo di Luca ma anche agli Atti degli Apostoli, si scorge che vi è una sorta di ospitalità aperta. Gesù è spesso invitato, mangia con i peccatori e le prostitute. Tante cose accadono attorno ai pasti. Peraltro, egli accoglie all'improvviso le persone quando esse si presentano. Tutto il suo modo d'essere è ospitale. Si tratta di una tematica fondamentale nell'insieme delle Scritture. La si trova all'inizio della Bibbia, se si pensa alle figure di Abramo e di Sara nel libro della Genesi. All'altro capo della Scrittura, nella Lettera agli Ebrei, si ritrova di
nuovo la medesima tematica, con questa frase magnifica: "Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo ", con un allusione alla ben nota scena di Abramo. Accanto a questa ragione biblica, occorre sottolineare che il contesto contemporaneo ha spinto molti pensatori a riflettere sull'ospitalità. Se si spinge l'ospitalità all'estremo appare una sorta di paradosso, dato che non si può sapere se s'accoglie un amico o un nemico. Si può comprendere in questa direzione cosa sia la santità di Gesù di Nazareth, cioè un modo totalmente senza condizioni di essere ospitale di fronte a chiunque si presenti.


Le conseguenze, se si cerca di essere veramente coerenti con questo criterio di interpretare l'insegnamento di Cristo, possono sembrare sorprendenti, ma in realtà rispondono perfettamente alla logica "soprannaturale" della santità.

In fondo, la credibilità del Cristo è qualcosa di molto semplice poiché la gente di Galilea l'ha ricevuto come qualcuno che è credibile. Innanzitutto, il Cristo è colui che ha sempre detto ciò che ha pensato e fatto ciò che ha detto. È una prima condizione di autenticità, di concordanza con se stessi. La seconda condizione consiste in un modo di affrontare le relazioni. La Regola d'oro ci aiuta a comprenderla: tutto ciò che vorrete sia fatto a voi, fatelo agli altri. Il che presuppone un atteggiamento molto specifico che il Cristo ha vissuto fino in fondo: una capacità di mettersi al posto degli altri con compassione e "simpatia" senza lasciare il proprio posto. Evidentemente, questa condizione è estremamente minacciata quando l'altro è un nemico. Il che può giungere anche dall'interno del
piccolo gregge dei discepoli: la figura di Giuda. È qui che appare la terza condizione della credibilità, cioè una mutazione del rapporto verso la morte. L'Apocalisse esprime ciò magnificamente, parlando dei cristiani che "non hanno amato la vita fino al punto di temere la morte". Hanno imitato il Cristo che ha consegnato la sua esistenza. Il cristiano non può mai essere credibile come Cristo è credibile, ma vi è un modo di entrare in relazione con lui e di ammettere la propria non credibilità confessando al contempo il proprio desiderio di divenire sempre più conformi a lui.

domenica 9 gennaio 2011

Basta con il cristianesimo triste

Paola Bignardi, già presidente nazionale di AC, nel suo libro: "Dare sapore alla vita. Da laici nel mondo e nella Chiesa" (ed. Ave) se la "prende" con un certo tipo di cristiani.

Chi ha familiarità con il Vangelo si rende conto dell'insostenibilità di quel cristianesimo triste e un po' arcigno che talvolta si incontra in chi ha perso i contatti con le fonti della vita cristiana. Il cristianesimo è l'esperienza di donne e di uomini che amano la vita, che vivono con gioia la loro esperienza familiare e sociale; le relazioni con gli amici e con i vicini di casa; la politica e la professione; che sanno apprezzare l'umanità in tutte le sue dimensioni: affetti, responsabilità, fatica, amore; che sanno dare un senso alle esperienze difficili che segnano l'esistenza di tutti: la malattia, il dolore, il limite, la solitudine, la morte.

Il cristiano che "piace" alla Bignardi (e anche a me) è dunque una persona solidale con i propri simili e con il mondo, è una persona che non lancia accuse e anatemi, ma che si pone alla scuola del Vangelo per capire e, soprattutto, per amare quell'umanità che la Provvidenza le ha messo accanto. Come insegna la celebre Lettera a Diogneto, i veri laici si mescolano volentieri con i loro simili.

Per questo i cristiani non cercano di appartarsi rispetto allo scorrere della vita quotidiana e alla responsabilità che essi condividono con ogni persona.

Tuttavia ciò non impedisce loro di testimoniare l'irriducibile alterità dell'annuncio evangelico che li fa essere e sentire stranieri rispetto a una mondanità che privilegia l'apparire e l'avere rispetto all'essere.